Il bambino ritrovato

È il mio primo giorno al nuovo lavoro. È una nuova agenzia di pubblicità, ma è diversa dalle solite: è un grande spazio aperto, come una palestra, dove le persone al loro interno sono fluide e libere di muoversi. Uno spazio in cui le persone hanno il sorriso e ti guardano negli occhi perché sono veramente interessate a te.

Arrivo, vengo presentato e sono accolto da abbracci, affetto, saluti e baci. Si apre un varco e arriva il direttore, è uno che ho conosciuto in passato, me lo ricordavo freddo e non abbiamo mai legato, ma qui sembra rilassato, disteso, sincero. Mi saluta e inizia un discorso di motivazione senza parole di rito, senza frasi a effetto. Conclude con “E adesso andiamo tutti a scuola”.

Non capisco di cosa parli, ma tutti escono e io li seguo, come in uno sciame diretto verso una normalissima pausa pranzo. Eppure non è ora di pranzo. Seguo il flusso, siamo in strada, pochi metri e arriviamo alla scuola materna lì a due passi. Entriamo e ci sediamo in circolo nell’atrio, in attesa dei bimbi che escono dalle loro aule.

Mi accorgo presto che dietro di me, defilati, ci sono tre bambini piccoli, avranno tre anni. Hanno il viso leggermente truccato, come appena usciti da una recita o da un gioco fatto a scuola. In quel momento mi accorgo che accanto a me c’è anche mio fratello e insieme assistiamo alla scena: uno dei tre bambini si alza ed esce dalla scuola. Con mio fratello decidiamo di seguirlo e ci incamminiamo per la strada che diventa un sentiero naturale, poi siamo nel letto di un fiume in secca, intorno a noi solo natura e qualche rudere di vecchie case abusive iniziate e mai finite. Dopo un po’ di tempo a camminare, un po’ per il terreno accidentato e un po’ per il paesaggio che ci distrae, perdiamo di vista il bambino. Non lo troviamo più. Cominciamo ad affannarci, proviamo ansia, cerchiamo e non troviamo. Rifacciamo la strada all’incontrario, torniamo sui luoghi che abbiamo visitato, ma il bambino non c’è. Tra le rocce nel letto del fiume decido di chiamarlo, alzo la voce, urlo con tutto il fiato che ho. Chiamo il suo nome, una, due, tre volte. In risposta, la sua vocina attutita dalla distanza e dalle rocce. Era lì vicino, e se non avessi urlato non mi avrebbe mai sentito, e io non lo avrei mai ritrovato.

Io e mio fratello corriamo verso la fonte della voce, da dietro un grande masso spunta il bambino, piccolo piccolo, con gli occhi pieni di meraviglia che ci guardano dal basso verso l’alto… ma la sua faccia è tutta ricoperta di bianco, come una polvere di cipria, come spolverata di farina. Una maschera che lo rende buffo. E lui, in tutto questo, con la voce più innocente, con la curiosità più sincera, ha solo una domanda da farci “Ma perché voi non vi siete sporcati?” Non sappiamo cosa rispondergli, ma sappiamo che la sua domanda è così perfetta, così limpida, che in sé contiene già la sua risposta.

In silenzio, ci incamminiamo tutti e tre verso il posto da dove siamo venuti. Ai piedi del sentiero crescono rovi e altre piante. Raccogliamo more, lamponi, mirtilli. Ne porgo al bambino che mangia, e anche noi ne mangiamo. Poi trovo una fragola di un rosso vivo, enorme, grande quanto il pugno della mia mano. Ma è troppo grande per me e non riesco a mangiarla. Sul sentiero troviamo un bagno pubblico, finalmente un lavabo e dell’acqua corrente. Ci laviamo e facciamo lavare anche il bambino, lui si sciacqua il viso e improvvisamente ci accorgiamo che è diventato più grande. Non è più il bimbo buffo di tre anni, ma è più alto, più magro, avrà sei o sette anni e la sua figura è già più simile a quella di un adulto.

Il nostro viaggio per oggi è finito. E tutti e tre insieme facciamo l’ultimo tratto di strada.

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