Categoria: brand
Facebook è morto?

Una mela al giorno leva il commercialista di torno
Secondo il Corriere, Apple pagava 50€ ogni milione di profitti.
Devo assolutamente cambiare commercialista.
NB per Pierangelo: suvvia, si scherza 😉
Sgominata la banda del “piuttosto che”
Acciuffata nel milanese la famigerata banda del “piuttosto che”. Il gruppo criminale, specializzato nella contraffazione della locuzione avversativa e comparativa, aveva negli anni allargato lo smercio dei “piuttosto che” contraffatti: copie in tutto e per tutto identiche all’originale, ma usate per scopi impropri come ad esempio in funzione disgiuntiva al posto di “oppure”.
La banda, con ramificazioni in tutto il Nord Italia, aveva appena iniziato l’assalto all’intero territorio nazionale spingendosi fin nelle più remote province del napoletano e della Locride.
I “piuttosto che” taroccati hanno rapidamente preso piede in territori fino a pochi anni fa ritenuti immuni da questa vera e propria piaga. Tanto che oggigiorno non è insolito ascoltare comitive di giovani sul lungomare di Mergellina lanciare proposte per la serata “Ué Gennarì, stasera ci vediamo a piazza Dante e ci facciamo una pizza piuttosto che uno spaghetto a vongole?”
Tra i componenti della banda, insospettabili esponenti dell’alta finanza, colletti bianchi e dirigenti d’azienda, avvocati e pubblicitari, ma anche presentatori televisivi, commercianti, tabaccai e parrucchiere, oltre a numerose professoresse di italiano.
La centrale della contraffazione è stata alla fine neutralizzata grazie alle unità cinofile dei Carabinieri che hanno sguinzagliato i fidi Treccani: “Finalmente stiamo estirpati questa maladucazzione e io spero che non lo fanno più” afferma l’appuntato Gargiulo subito dopo la retata che ha portato al sequestro del più ingente quantitativo di “piuttosto che” di cui si abbia memoria.

Per approfondire potete leggere cosa ne dice la Treccani, o cosa ne pensa l’Accademia della Crusca. Se invece volete dare un contributo attivo alla lotta contro l’uso improprio del “piuttosto che”, potete aderire a uno dei tanti gruppi sparsi in giro sui social, come questo per esempio.
La banalità della pubblicità
Opel lancia la nuova Astra con il claim “Spudoratamente di lusso”, e lo fa con una campagna televisiva memorabile per aver creato il bambino più antipatico nella storia della pubblicità. Girano già diverse parodie su YouTube.
Glissiamo sul fatto di aver rappresentato il non-possessore di Opel come un bruttino stagionato mentre il possessore della Opel è un fotomodello vichingo e anche po’ #hipsterdelcazzo: qui siamo all’ABC della pubblicità. Vorrei invece spendere due parole sul rovesciamento dei significati, un’operazione retorica degna dei peggiori bari di Forcella.
Il proprietario della Opel Astra, una macchina da 17mila euro e oltre, è raffigurato come un giovane di circa 25 anni che ha già un figlio di 10 anni a carico. Sicuramente ci sono in giro giovani che possono permettersi una macchina del genere a 25 anni, ma nella realtà che conosco quasi tutti i 25enni o sono disoccupati o stanno lavorando con un contratto in scadenza nei prossimi 2-3 mesi.
Il capolavoro arriva però pochi secondi dopo, quando per promuovere il servizio OnStar di soccorso satellitare automatico viene raffigurata una giovane operatrice di call center che risponde alla chiamata del dispositivo installato sulla macchina: una giovane super pettinata, truccata alla perfezione e con un elegantissimo tailleur che, più che una lavoratrice su turni di una centrale operativa, sembra la nipote rampante di Letizia Moratti.
E allora benvenuti nel favoloso mondo della pubblicità, dove nulla è ciò che sembra. Dove il target (anche se 50enne, calvo e panzone) è rappresentato come un giovane irresistibile Adone, mentre chi lavora in un call center (che anche per comprarsi una Fiat Duna deve sobbarcarsi un mutuo) assomiglia a un vincentissimo membro dei giovani di Confindustria.
#nofuture
Un tweet vi convertirà
In principio erano 140 caratteri. Ah no, quello era il Verbo. Ma sempre di parole si tratta. Gesù faceva storytelling con le parabole. I Dieci Comandamenti sono 10 headline memorabili. La parola è sempre stata lo strumento più potente per convincere e persuadere.
Convèrtiti, utente infedele!
Chi fa web marketing – e anche chi non lo fa – deve fare i conti con le conversioni. La conversione si ha quando un utente, raggiunto da una azienda, compie l’azione richiesta dall’azienda stessa (acquistare oggetti o servizi, cedere dati personali). Si ha la conversione, per esempio, quando una visita su una landing page si trasforma in vendita.

In pratica è come quando il prete suona alla porta per benedirvi la casa. Se gli aprite e gli permettete di schizzare acquasanta© sul parquet e sui preziosissimi quadri che avete appesi, e se gli lasciate una mancia, allora si è avuta una conversione.
Se poi dalla domenica successiva cominciate ad andare in chiesa e a lasciare offerte, allora siete utenti fidelizzati. Et voilà, Internètt ha fatto ‘o miracolo.
Fate la religione, non fate la guerra
Il marketing usa da sempre il gergo militaresco: studiare la strategia, pianificare campagne, raggiungere il target, lanciare un prodotto (come se fosse una bomba). Il campo di battaglia è sempre stato il salotto col televisore, la strada coi cartelloni pubblicitari e il negozio con le offerte. Con gli smartphone la cosa diventa un po’ più intima. Folle di pendolari curvi sui telefoni, come penitenti in clausura chiusi su se stessi, cercano informazioni e notizie dagli amici, in una dimensione intima, quasi spirituale.
Dal punto di vista oggettivo, l’attività di un utente ha poco di mistico e molto di misurabile: chi si occupa di monitorare l’andamento delle campagne online ha gli strumenti per fare analisi e report. Ma dal punto di vista di chi crea contenuti, la cosa ha anche altre implicazioni. Scrivere vuol dire creare. E nelle “cose creative” la logica serve a poco. Diventa obbligatorio saper toccare le corde più intime, suscitare emozioni per parlare a questi zombie (che mi fanno sempre perdere la metro un attimo prima che la porta si chiuda). Non basta che guardino la vostra pagina web: devono convertirsi da visitatori a fedeli.
Serve sensibilità, intuito e ispirazione, oltre allo studio e all’impegno che sono la base di ogni buon lavoro. Un grande in bocca al lupo a tutti i web-cosi e a chiunque si occupi di scrittura sul web.
Nb: post scritto sull’interscambio della metro tra la linea verde e la rossa.
Incontro con il mito
Dall’Alpi alle Piramidi, dal Manzanarre al Reno, è arrivato a Sesto San Giovanni Roberto Giacobbo. Un incontro con due metri d’uomo che, come non tutti sanno, oltre ad essere autore e presentatore di Voyager è anche vicedirettore di Rai Due. Grazie agli amici di AmikAj, adesso il progetto Biosfere è vivo e vegeto e cammina sulle sue gambe. Fino alla fine di gennaio al Centro Sarca.
Lattine, barattoli e boccaloni
Coca-Cola lancia l’idea delle lattine personalizzate col proprio nome. Dopo qualche mese Nutella fa la stessa cosa. E parte la discussione su chi ha copiato chi. L’unica certezza è che Brunella ci aveva già pensato 10 anni fa, come spiega in questo articolo.

Ma vorrei dire un’altra cosa. E cioè che è una vita che mettiamo le nostre facce su polo Lacoste e le chiappe dentro jeans Levi’s. E già questo m’ha sempre scatenato un moto di protesta: ma come, io devo pagare per andare in giro col tuo logo stampato gigante come fossi una pubblicità vivente? Caro brand, semmai TU devi pagare ME perché me ne vada a spasso col tuo marchio addosso.
Ma son quisquilie marginali di pensiero critico e apocalittico che hanno poco posto in questo sistema. Status symbol, moda, fashion: sono le regole del look, bellezza, e non puoi farci niente.
Eppure, questa corsa ad ammantarsi di oggetti brandizzati, non somiglia forse al comportamento dei cani che per istinto si rotolano negli escrementi per acquisire l’odore che li mimetizzerà nella boscaglia e permetterà loro di cacciare meglio le prede? Una questione di adattamento e di sopravvivenza. Perciò capisco (ma non giustifico) chi ostenta loghi e chi denigra quelli con lo smartphone di un’altra marca.
Ma quest’operazione dei nomi sulla lattina? Mi sembra che qui ci sia uno slittamento, perché si passa dal brand come feticcio che indossato potenzia la nostra individualità a un processo esattamente inverso. Col mio nome sulla lattina o sul barattolo in pratica trasferisco la mia identità al prodotto. Come cedere una parte di sovranità al marchio. Qualcosa che si sposa a perfezione con la filosofia dei marketers di oggi che vogliono il consumatore protagonista. Come ben descrive questo bel video:
Sei dunque TU il protagonista? Sei davvero TU che comandi il brand? Sicuri che il web con la sua sterzata sempre più social dia veramente potere alle persone? Non è che per caso possiamo invertire la prospettiva e vedere piuttosto un consumatore fagocitato dal brand?
Siamo immersi come sacchetti di tè in infusione in questa rete di rapporti e flussi d’informazione. Tanti piccoli ego bulimici che si gonfiano davanti a un monitor e s’ingozzano di like e di commenti. Puoi essere eroe per un giorno su Facebook e su Twitter pensando di essere bravo perché usi la piattaforma in un certo modo. Ma non stai solo usando il web a tuo vantaggio: in realtà stai lavorando per Facebook e per Twitter, e per tutti gli altri brand. E lo stai facendo gratis, regalando loro ore della tua vita. Sei una formica operaia in un formicaio. Ed è un formicaio di quelli trasparenti dove un focus group di formicofili© ti osserva tutto il giorno calando giù di tanto in tanto una mosca rinsecchita per nutrirti e osservarti. Non c’è più neanche bisogno di fare sondaggi a campione per inseguirti: sei tu che stai offrendo tutti i tuoi dati ai brand. Loro devono solo incrociarli e decidere cosa fare di te.
