Categoria: social
Facebook è morto?

Dietro il cancelletto
FB: Fenomenologia del Branco
Facebook sembra replicare perfettamente le dinamiche delle scuole superiori. Forse non è un caso che sia nato dalla mente di un tardoadolescente con lo scopo di fare la classifica dei più fighi della scuola. Succede nelle pagine e nei gruppi di Facebook: gruppi ricreativi, gruppi professionali, gruppi che sposano cause sociali. Tutti nati con con il presupposto (e spesso al solo sopo) di definire di un’identità: vegani, animalisti, carnivori, ciclisti, grammar nazi, pubblicitari, fashion victim, movimenti politici.

Nell’acquario dei gruppi si replica all’infinito lo stesso format: gerarchie e sopraffazioni, piccoli e grandi linciaggi, lobby e cordate, emarginazione dei deboli e dei diversi. Brodo di coltura per virulenti meme dove un branco diffuso mette alla gogna la vittima del momento. Sempre le stesse dinamiche congelate in rituali immutabili. Una replica di comportamenti che incentivano e rafforzano un’eterna immaturità. L’immaturità dei mostruosi adolescenti: non più innocenti perché non più bambini, ma troppo instabili e gregari, aggressivi e pronti al linciaggio, per essere definiti adulti maturi ed equilibrati.
Gruppi come acquari post-fantozziani in cui potete trovare la signorina Bessi e il meccanico Molli, l’usciere Tritti sorteggiato e il ragionier Bulzoni, gli ex colleghi e gli ex amanti, in un crescendo regressivo che arriva fino ai vostri compagni delle elementari e a tutte le altre triglie onorate di farne parte.
Ma vediamo i tipi ricorrenti nei gruppi FB e impariamo a riconoscerli. Questa è solo una lista estemporanea, ognuno si senta libero di riconoscervisi o di aggiungerne degli altri.
Il bullo che in virtù di un’autoattribuita autorità (dovuta per esempio al suo grado di vegano 8° dan) ti risponde con l’atteggiamento “mattùchiccàzzosei?”
Il secchione che non manca mai di farti notare che ne sa più di te.
Il saccente che di solito non ne sa più di te, perché è un tuttologo caprone ignorante, ma ogni volta che scrivi qualcosa lui o lei corre a controllare su Wikipedia per correggere ogni tuo errore o imprecisione.
La comunella, ovvero il gruppetto di commentatori in numero variabile che, in nome di una presunta comunanza (che può essere di età, di sesso o di conoscenza personale dell’amministratore della pagina) circonda, bersaglia e denigra ogni malcapitato utente che si azzardi a intervenire nel loro territorio con raffiche di velati insulti e sfottò.
Il màsculo che interviene in una discussione tra astrofisici per insinuare che ok, Margherita Hack sarà anche stata una brava scienziata, ma era proprio un cesso di donna.
Lo spammer che piazza foto di agnelli pasquali squartati nei gruppi sul design, o un video di ciclisti NO OIL in un gruppo di cristiani metallari.
Chi vuol essere Social Media Manager?
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Il corso si rivolge a chiunque voglia raggiungere obiettivi misurabili di engagement su piattaforme social attraverso l’implementazione di strategie di digital marketing che prevedano attività sia organiche che a pagamento in un contesto di Integrated Social Media Activities finalizzate al Brand Reputation Management.
Programma
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- Quante foto di gattini è possibile pubblicare in un mese
- “Perchè” vs “perché”: qual è il modo giusto di scriverlo
Iscrizione e costo
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I nostri docenti
Rosalia Caccavale

Mimmofranco Cicolone

Sigismonda Sprezzan de Lollis

Franchino Purciarotti

Cosa aspetti a iscriverti a SMERD? Attenzione però: i posti sono limitati! Lascia un commento qui sotto per proporre la tua candidatura. Ti ricontatteremo al più presto. Forse.
L’invasione degli ultracopy
Ma vi ricordate quando esistevano solo il copywriter e l’art director? Ah no, non ve lo ricordate? Allora è probabile che tu sia della nuova generazione mutante di web-cosi cui non basta il titolo di copywriter, serve qualcosa di più.
Nel film L’invasione degli ultracorpi, una specie aliena arrivava sulla Terra e, dopo una breve incubazione all’interno di grossi baccelli, prendeva le sembianze di altri esseri umani soppiantandoli per sempre. Così succede nella comunicazione.
Prima c’era il copywriter. Poi arrivò quello che produce video virali di successo che fanno schizzare alle stelle le visualizzazioni. Poi arrivò quello che scrive per il web. I corsi e master in pubblicità adeguarono l’offerta dell’insegnamento. Proliferarono corsi di Web Writing e Web Optimization.

Poi arrivarono i famigerati corsi online. Schiere di nuovi prof offrivano i segreti in 5 punti per vendere di più. La formula scientifica per scrivere una lettera di vendita. Il seminario per guadagnare online con il copy.

E finalmente arrivarono i frutti. I baccelloni si schiusero e una nuova genìa di professionisti si fece strada negli uffici e nelle bacheche di LinkedIn in un’orgia crescente di titoli e mansioni:
- SEO Copywriter
- SEM Specialist Writer
- Concept Creator
- Digital Copywriter
- Social Media Writer
- Digital Marketing Specialist
- Strategic Web Writer
- Web Marketing Editor
- Viral Content Writer
- Content Developer
- Cool Content Writer
- Digital Magical Writer
- Web Juggler Copy
- Super Sayan Editor
- Online Guru Writer
- God-on-Earth Webcopy
E tu a quale categoria appartieni e come hai cambiato negli anni la tua qualifica? Conosci altri titoli che sicuramente mi sono sfuggiti compilando questo elenco? Fammelo sapere con un commento.

Un tweet vi convertirà
In principio erano 140 caratteri. Ah no, quello era il Verbo. Ma sempre di parole si tratta. Gesù faceva storytelling con le parabole. I Dieci Comandamenti sono 10 headline memorabili. La parola è sempre stata lo strumento più potente per convincere e persuadere.
Convèrtiti, utente infedele!
Chi fa web marketing – e anche chi non lo fa – deve fare i conti con le conversioni. La conversione si ha quando un utente, raggiunto da una azienda, compie l’azione richiesta dall’azienda stessa (acquistare oggetti o servizi, cedere dati personali). Si ha la conversione, per esempio, quando una visita su una landing page si trasforma in vendita.

In pratica è come quando il prete suona alla porta per benedirvi la casa. Se gli aprite e gli permettete di schizzare acquasanta© sul parquet e sui preziosissimi quadri che avete appesi, e se gli lasciate una mancia, allora si è avuta una conversione.
Se poi dalla domenica successiva cominciate ad andare in chiesa e a lasciare offerte, allora siete utenti fidelizzati. Et voilà, Internètt ha fatto ‘o miracolo.
Fate la religione, non fate la guerra
Il marketing usa da sempre il gergo militaresco: studiare la strategia, pianificare campagne, raggiungere il target, lanciare un prodotto (come se fosse una bomba). Il campo di battaglia è sempre stato il salotto col televisore, la strada coi cartelloni pubblicitari e il negozio con le offerte. Con gli smartphone la cosa diventa un po’ più intima. Folle di pendolari curvi sui telefoni, come penitenti in clausura chiusi su se stessi, cercano informazioni e notizie dagli amici, in una dimensione intima, quasi spirituale.
Dal punto di vista oggettivo, l’attività di un utente ha poco di mistico e molto di misurabile: chi si occupa di monitorare l’andamento delle campagne online ha gli strumenti per fare analisi e report. Ma dal punto di vista di chi crea contenuti, la cosa ha anche altre implicazioni. Scrivere vuol dire creare. E nelle “cose creative” la logica serve a poco. Diventa obbligatorio saper toccare le corde più intime, suscitare emozioni per parlare a questi zombie (che mi fanno sempre perdere la metro un attimo prima che la porta si chiuda). Non basta che guardino la vostra pagina web: devono convertirsi da visitatori a fedeli.
Serve sensibilità, intuito e ispirazione, oltre allo studio e all’impegno che sono la base di ogni buon lavoro. Un grande in bocca al lupo a tutti i web-cosi e a chiunque si occupi di scrittura sul web.
Nb: post scritto sull’interscambio della metro tra la linea verde e la rossa.
Lattine, barattoli e boccaloni
Coca-Cola lancia l’idea delle lattine personalizzate col proprio nome. Dopo qualche mese Nutella fa la stessa cosa. E parte la discussione su chi ha copiato chi. L’unica certezza è che Brunella ci aveva già pensato 10 anni fa, come spiega in questo articolo.

Ma vorrei dire un’altra cosa. E cioè che è una vita che mettiamo le nostre facce su polo Lacoste e le chiappe dentro jeans Levi’s. E già questo m’ha sempre scatenato un moto di protesta: ma come, io devo pagare per andare in giro col tuo logo stampato gigante come fossi una pubblicità vivente? Caro brand, semmai TU devi pagare ME perché me ne vada a spasso col tuo marchio addosso.
Ma son quisquilie marginali di pensiero critico e apocalittico che hanno poco posto in questo sistema. Status symbol, moda, fashion: sono le regole del look, bellezza, e non puoi farci niente.
Eppure, questa corsa ad ammantarsi di oggetti brandizzati, non somiglia forse al comportamento dei cani che per istinto si rotolano negli escrementi per acquisire l’odore che li mimetizzerà nella boscaglia e permetterà loro di cacciare meglio le prede? Una questione di adattamento e di sopravvivenza. Perciò capisco (ma non giustifico) chi ostenta loghi e chi denigra quelli con lo smartphone di un’altra marca.
Ma quest’operazione dei nomi sulla lattina? Mi sembra che qui ci sia uno slittamento, perché si passa dal brand come feticcio che indossato potenzia la nostra individualità a un processo esattamente inverso. Col mio nome sulla lattina o sul barattolo in pratica trasferisco la mia identità al prodotto. Come cedere una parte di sovranità al marchio. Qualcosa che si sposa a perfezione con la filosofia dei marketers di oggi che vogliono il consumatore protagonista. Come ben descrive questo bel video:
Sei dunque TU il protagonista? Sei davvero TU che comandi il brand? Sicuri che il web con la sua sterzata sempre più social dia veramente potere alle persone? Non è che per caso possiamo invertire la prospettiva e vedere piuttosto un consumatore fagocitato dal brand?
Siamo immersi come sacchetti di tè in infusione in questa rete di rapporti e flussi d’informazione. Tanti piccoli ego bulimici che si gonfiano davanti a un monitor e s’ingozzano di like e di commenti. Puoi essere eroe per un giorno su Facebook e su Twitter pensando di essere bravo perché usi la piattaforma in un certo modo. Ma non stai solo usando il web a tuo vantaggio: in realtà stai lavorando per Facebook e per Twitter, e per tutti gli altri brand. E lo stai facendo gratis, regalando loro ore della tua vita. Sei una formica operaia in un formicaio. Ed è un formicaio di quelli trasparenti dove un focus group di formicofili© ti osserva tutto il giorno calando giù di tanto in tanto una mosca rinsecchita per nutrirti e osservarti. Non c’è più neanche bisogno di fare sondaggi a campione per inseguirti: sei tu che stai offrendo tutti i tuoi dati ai brand. Loro devono solo incrociarli e decidere cosa fare di te.
