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A Natale siamo tutti più fuffa
Attenzione: questo post contiene il 20% di fuffa in più rispetto ai soliti post sul Natale. Può contenere tracce di bullet point e residui di “piuttosto che”.
Come ogni anno, a novembre scatta l’operazione Fuffa di Natale. Non fai in tempo a salvarti dal Black Friday, che è subito tempo di addobbi, angioletti, alberi e presepi. Gli uffici marketing e le agenzie frizzano di brief, richieste di auguri e produzione di materiali dedicati al Natale da consegnare asap. Tra le attività più gettonate:
- Cartoline aziendali di Natale
- Auguri aziendali di Natale
- Il post Facebook di Natale
- Gadget di Natale dei fornitori
- Gadget di Natale ai dipendenti
Ma nulla è più ambito della specialità che ha reso il Natale l’appuntamento più amato dalle aziende nostrane. Cosa sarebbe il santo Natale senza la più tipica delizia milanese? Che sia classico o farcito, con canditi o senza, con scaglie di cioccolato, a basso contenuto di grassi o fatto di solo burro, con o senza olio di palma, senza glutine o senza mandorle, anche quest’anno è arrivato il mitico, unico, inimitabile, panfuffone di Natale.

Per i vostri business partner e per i vostri schiavi dipendenti; per i clienti acquisiti e per i prospect. Allietate le vostre feste e quelle dei vostri stakeholder! Arricchite le vostre tavole con il panfuffone di Natale che arriverà quest’anno direttamente nelle vostre caselle di posta elettronica, grazie allo speciale algoritmo fuffa-proof che permette ai panfuffoni di aggirare il filtro anti-fuffa di Gmail.
Quest’anno non avrete più scuse per risparmiare sugli auguri. Un panfuffone non costa nulla e vi toglie dall’imbarazzo. E allora, di tutto cuore, augurandovi buon Natale piuttosto che buone feste… Buona fuffa a tutti!
NB: nessun “piuttosto che” è stato maltrattato durante la scrittura di questo post. Se vuoi conoscere tutta la verità sull’abuso del “piuttosto che”, leggi qui la notizia completa.
Breaking News “Energia elettrica da tutte le cazzate che scrivete su Facebook”
Rivoluzione Zuckerberg “Si potrà produrre energia elettrica da tutte le cazzate che diffondete sul web”. È quanto afferma il magnate proprietario del più famoso social network.
Lo speciale e segretissimo algoritmo scandaglia tutti i contenuti dentro e fuori dai social, tra post razzisti, vegani e antivegani, foto di gattini, insulti alla Boldrini e commenti anonimi sul sito del Fatto Quotidiano.
È già allo studio della Apple una batteria integrata nella prossima versione iPhone che permetterà alle cazzate di autoalimentare i vostri telefoni e tablet. Così non dovrete neanche interrompervi per cercare il caricabatterie.

Il folletto dei refusi
C’era una volta uno scrittore di nome Gigetto, ma tutti lo chiamavano Getto. Scriveva solo di notte. Dal tramonto all’alba, scriveva lesto lesto. E al mattino, al primo chicchirichì del gallo, andava a coricarsi senza rileggere subito i suoi scritti. Erano i famosi scritti di Getto.
Era uno scrittore celebre in tutta la nazione. Pubblicava romanzi, fiabe e racconti. I suoi libri erano ovunque: nelle librerie, in edicola e nelle biblioteche comunali. Non era raro trovare gli scritti di Getto anche in salumeria e nelle sale bingo. Oltre ai libri, scriveva per i maggiori quotidiani e periodici, era ghostwriter per alcuni noti politici ed era anche un abile inventore di slogan pubblicitari. Riusciva a scrivere di tutto ed era molto apprezzato per la sua grande versatilità, precisione e velocità con cui portava a termine ogni lavoro.
Tuttavia Gigetto era quasi sconosciuto nella cittadina in cui viveva. I suoi vicini lo consideravano una specie di eremita perché non lo si vedeva quasi mai, né per strada né dentro l’unico bar-trattoria del paese. Lo si poteva incontrare solo di rado quando usciva a imbucare le lettere, due o tre volte a settimana, per spedire i suoi preziosissimi scritti agli editori, alle redazioni di giornali e ai suoi amici di penna di un certo livello: scrittori come lui, intellettuali depressi, direttori cocainomani di agenzie pubblicitarie e addetti stampa delle ambasciate presso lontane dittature sub-equatoriali.

Viveva solo soletto, lo scrittore Getto. La sua unica compagnia era un vecchio gatto, grasso e pigro, di nome Leonardo. Il grasso felino gli faceva compagnia mentre scriveva, era buono e silenzioso. Miagolava solo per fargli capire che aveva fame. A quel punto Getto, cascasse il mondo, anche se stava per trovare il finale perfetto a una delle sue storielle, doveva lasciar cadere la penna e dedicarsi al gatto Leonardo per preparargli la pappa. Leonardo, fatto strano per un gatto, amava solo il formaggio. Disdegnava le lische di pesce. Di croccantini neanche a parlarne. Mangiava solo fettine di gruviera. Al limite si sarebbe accontentato di un pezzetto di grana o di parmigiano. Altro non mangiava.
Anche quella notte, dopo il lungo lavoro, Getto infilò i fogli sotto una grossa pietra sulla scrivania: avrebbe riletto tutto appena sveglio, a mente fresca. Perché è vero che Gigetto scriveva di getto, ma non era mica fesso: i suoi scritti li rileggeva uno ad uno, ma solo il giorno dopo. Si svegliava a mezzogiorno e dopo una piccola colazione rileggeva ad alta voce quello che aveva scritto. Poteva essere un capitolo di un libro, un articolo di giornale, uno slogan pubblicitario o l’invenzione di un nuovo nome per un prodotto da lanciare sul mercato. Getto era preciso ed estremamente pignolo: mai avrebbe permesso che un errore o la più innocente delle sviste mettesse a rischio il suo lavoro.
Mentre leggeva declamando con enfasi, rivolgeva l’attenzione ora alla sua figura riflessa nello specchio, ora al gatto Leonardo che sonnecchiava sulla vecchia poltrona rovinata. Cambiava qualche frase, trovava un sinonimo, correggeva errori, sintetizzava tutto per dare alle sue parole la massima scorrevolezza, sonorità ed efficacia.
Poi ricopiava tutto battendo i testi con la macchina per scrivere. Piegava i fogli in tre e li imbustava. Scriveva l’indirizzo dell’editore o della redazione e infine scendeva giù in paese per imbucare le lettere nella cassetta rossa dietro l’ufficio postale. Solo allora si concedeva una capatina al bar-trattoria per fumarsi un sigaro e bere un cognac.
Tutto andava a meraviglia, finché un giorno non si vide recapitare un telegramma dal postino:
Maxima delusione per Suo scritto. Rapporto lavorativo interrotto.
Questo recitava la stringa. Era il direttore della rivista letteraria “Orizzonti d’angoscia”, pubblicata dalla Puzzoni&Puzzoni Editori, che gli comunicava la fine di una collaborazione pluriennale. Nel giro di pochi giorni si susseguirono altri messaggi:
Non si permetta mai più di inviare altri lavori. Contratto chiuso.
Era il messaggio della contessa Sprezzan de Lollis, nota fan del Lexotan e caporedattrice della “Gazzetta del giorno dopo”, quotidiano ormai démodé, ma con un séguito di nonne di tutto rispetto.
E ancora, dall’agenzia pubblicitaria Saatchenti & Saatchenti:
Ultimi slogan vero schifo. Prox volta li mandi a sua madre.
Getto era distrutto. Cercò il gatto Leonardo che da un po’ non si faceva vedere. Forse è fuori a far le fusa al lattaio, pensò Getto, ma anche a tarda sera di Leonardo non c’era traccia. Solo quando tornò al pesante tavolo di legno per lavorare ai suoi scritti, Getto trovò una lettera. Era un messaggio di Leonardo che diceva:
Sono Leonardo,
per essere tigre
son troppo codardo.
Non sono un leone
e nemmeno un leopardo.
Somiglio ad un gatto,
ma io me ne sbatto…
Non dirlo mai in giro:
In realtà sono un ratto.

Il povero Getto mai avrebbe pensato che Leonardo sapesse scrivere, né tantomeno che fosse un ratto. A quel pensiero, sbiancò e lasciò cadere penna e calamaio.
Si chinò a raccogliere la penna, ma al suo posto trovò una pinna. Una pinna da subacqueo. E al posto del calamaio, un grosso calamaro rosa riverso per terra. Era un vero e proprio cefalopode, tutto lucido e imbrattato del suo stesso inchiostro, che agitava i tentacoli mentre i suoi grandi occhi neri fissavano lo scrittore. E non si capiva se fosse più grande lo stupore del calamaro o di Getto, che non riusciva a dare un senso alla bizzarra situazione. Prese pinna e calamaro e andò a buttarli nel cestino della spazzatura. Poi ci ripensò, riprese il calamaro e lo mise in frigo: sarebbe stato buono al forno.

Decise di accendere un’altra candela per fare più luce nella casetta a quell’ora inoltrata della sera. Doveva vederci chiaro. Ma quando sfregò il fiammifero e avvicinò la fiammella alla candela, invece del lume trovò una lama. Cacciò un urlo, Gigetto, un urlo così acuto che si udirono i cani randagi abbaiare ed ululare come ossessi per tutto il vicinato. Il taglio sul dito era profondo, corse a cercare un cerotto, una garza, qualcosa per tamponare il sangue che scorreva a fiotti. Aprì la cassetta dei medicinali e al posto delle garze trovò tre gazze. Tre gazze ladre che subito spiccarono il volo in cerca di qualcosa da rubare. Ma non trovarono nulla in quella casa piccola e spartana. Getto riuscì ad aprire la finestra per far volare fuori i tre uccellacci.

Decise che per quella giornata poteva bastare e così andò a coricarsi, ma non riusciva a prender sonno, ferito e spaventato com’era. Non chiuse occhio. E in quello stato quasi magico tra la veglia e il sonno, cominciò a fantasticare. Vide se stesso mentre si accingeva a calzare una scarpa che, all’istante, si tramutò in scerpa. Un piccolo incazzosissimo scerpa che si divincolava per non essere calzato dal piede di Getto e che gli urlava contro orribili bestemmie tibetane. Poi gli venne in sonno, come nella fiaba di Pinocchio, il grillo parlante che iniziò a farfugliare cose senza senso: infatti non era un grillo, ma un grullo parlante che farneticava senza un briciolo di logica. I suoi sogni erano sicuramente segni, ma di cosa? Gigetto non sapeva più se sentirsi a letto o a lutto. Stava perdendo il senno o era semplicemente sonno?
Finalmente, nel cuore della notte, cadde addormentato.

Il giorno dopo, il postino consegnò a Getto un grosso pacco. Conteneva altri scritti rifiutati che gli erano tornati indietro. Iniziò a sfogliare tutte quelle carte: i suoi racconti, i suoi articoli, le recensioni e gli spot pubblicitari a cui aveva tanto diligentemente lavorato. Erano pieni di errori. Refusi su refusi. Accenti sbagliati, apostrofi dove non avrebbero dovuto essere. Congiuntivi a casaccio e consecutio temporum ad minchiam.
Getto ebbe un tracollo. Restò a frignare tutto il giorno in casa, distrusse due sedie e prese il muro a testate finché non venne sera. Rannicchiato in un angolo buio della sua casetta, Getto singhiozzava, non aveva più lacrime, ma solo domande senza risposta.
In quel momento, dal buio più profondo della stanza, si staccò dall’ombra una figura minuta e storta. Chi sei tu? Gli urlò Getto terrorizzato. Hihihehe, si sentì ridacchiare con un suono stridulo, sono il folletto dei refusi.
Era alto poco più di mezzo metro, la testa grande quanto un pallone da calcio, gambe e braccia rachitiche e sproporzionate rispetto al resto del corpo.
Chi ti ha fatto entrare? Fuori da casa mia! Getto urlava terrorizzato, mentre il piccolo essere si avvicinava lentamente fissandolo con i suoi occhi grandi e penetranti, luminosi al buio come quelli di una civetta.
Cosa vuoi da me, bestia immonda, sta’ lontana! Getto non sapeva più cosa fare, completamente in preda a convulsioni di terrore. Allora il folletto iniziò a parlare con una voce acuta e fastidiosa:
Buon Gigetto, detto Getto, io ti leggo nel pensiero…
Anticipo la penna e ti svio dal sentiero.
Intervengo a gamba tesa quando scrivi dell’amore:
sarò per i tuoi scritti peggio di un tumore.
Puoi scrivere di storia, religione o canottaggio…
il mio solo scopo sarà il tuo sabotaggio.
E ora che dimoro in questa squallida baracca
farò di tutto perché tu vada in vacca.

Ricordi il tuo racconto per la rivista di viaggi? Continuò il folletto pregustando l’effetto che le sue parole avrebbero sortito, mentre a Getto tremavano i polsi in attesa di una rivelazione… Ricordi quella descrizione della giungla popolata da bestie selvatiche? Ebbene, io ho trasformato il tuo branco di leoni feroci in un bivacco di peoni froci. E gli alligatori che sguazzano nei fossi son diventati allibratori che sgozzano dei fessi.
Getto era basito. Ormai era evidente: la sua carriera era finita. E non c’era nulla che potesse fare. Passarono giorni, mesi, anni, ma il folletto non abbandonò mai quella casa. Getto divenne vecchio e ancora più solo. Smisero tutti di cercarlo. Di tutti quei refusi si fece una ragione. Smise di scrivere, ma conservò l’abitudine di immaginare storie e racconti che prendevano vita solo nella sua testa. Muoveva le dita nel vuoto, come a scrivere un racconto, ma non mise mai più neanche una riga nero su bianco, tanto grande era il terrore di fare un altro errore, fosse anche il più innocuo dei refusi.

Di lui non si seppe più nulla per molti anni. Lo ritrovarono senza vita, una mattina fredda e nuvolosa. Giaceva riverso dentro un bosco, trafitto nella schiena da un’enorme penna biro. Fu quella la fine del nostro triste autore. Mai più nessuno avrebbe letto gli scritti di Getto che, per un tragico refuso, confondendo il gatto con il ratto, incontrò la sua rovina. E fu così che la sua penna si tramutò nella sua pena.

Facebook è morto?

Mangino ostriche
L’accessibilità al lusso in fatto cibo ha fatto passi da gigante. Passi in direzione del pleistocene o giù di lì. Assomiglia a quell’attimo che segna il destino di una specie nell’eterno susseguirsi dei milioni di esistenze nate ed estinte fin dall’alba dei tempi. Quell’attimo in cui, spinti dalla voce imperiosa dell’istinto, allunghiamo la mano per cogliere quella bacca così violacea e luccicante. Così suadente. Così mortifera.
Oggi per esempio al supermercato ho trovato i tranci di salmone fresco a 9,5€ al kg. Evviva! Dopo una giornata a zampettare nella ruota come un criceto, ci rimane almeno il cibo per cullarci e blandirci. Grassa consolazione.
Perché si finisce sempre con lo scofanamento di cibo impacchettato e presentato come fosse la prelibatezza definitiva che-non-puoi-assolutamente-perderti-e-pensa-che-oggi-è-anche-in-offerta-con-lo-sconto-del-50%.
Ma vi ricordate quando il salmone era un cibo di lusso? (maledetti allevamenti di salmoni norvegesi! Me lo diceva sempre anche Pamela) E di quando le ostriche erano il sogno mostruosamente proibito dei poveri emarginati dal jet set? Oggi vedo mozzarelle di bufala Dop a meno di 10€ al kg; Barolo Docg da 7€ a bottiglia; sushi e sashimi da lanciare a badilate nel cestino della spesa; tartare di chianina con fogliolina di prezzemolo annessa.

Un’orgia bulimica di grassi, zuccheri e proteine. Salvo poi star male, maledicendo tutte le esselunghe, i conad e i carrefour del mondo.
Questo finto lusso si piazza agli antipodi – non antagonista, ma sulla stessa scala di valori – di quella che Paolo Iabichino definisce:
ostentazione cafona della ricchezza da parte dei giovani rampolli di tutto il mondo, imbottiti di mancette milionarie che servono ad esibire le proprie scorrerie mondane tra auto di lusso, vacanze a cinque stelle, shopping spudorati e gadget a cinque zeri.
Non cafoneria da ricchi, dunque, ma lusso da poveracci. Da una parte, l’ostentazione di una ricchezza inconsapevolmente cafona. Dall’altra, un’inconsapevole ostentazione di povertà. Si rincorre un’idea di lusso, benessere e ricchezza, costruita e impacchettata esclusivamente per gli ultimi, per i paria dell’impero consumista.
Siamo come dentro Matrix, dove quello che vediamo è tutto di lusso e a metà prezzo. E mi raccomando, che sia fresco e di qualità. Il senso è oscurato dal bagliore del simbolo significante. Un significante all’apparenza dorato, ma fatto della stessa sostanza della merda.

Ma verrà un giorno. Un’alba nuova e luminosa che dissolverà la matrice svelando la vera faccia delle cose. E al cospetto dei nostri sensi, nuda e sfolgorante, avremo solo la verità. Finti sushi e intrugli rossi al metanolo finiranno negli abissi inghiottiti da un oblio terrificante come Cthulhu per far posto a luminose distese di guanciale, bucatini e cacio grattugiato. Fate posto nei vostri carrelli alla purezza delle cose vere, aprite i vostri cuori alle cose semplici, ripulite le vostre budella. E le ostriche invendute resteranno in fondo, fredde e putrefatte, su scaffali da obitorio. Spettrali monumenti ai mitili ignoti.
Una mela al giorno leva il commercialista di torno
Secondo il Corriere, Apple pagava 50€ ogni milione di profitti.
Devo assolutamente cambiare commercialista.
NB per Pierangelo: suvvia, si scherza 😉
Chi vuol essere Social Media Manager?
In occasione della Social Media Week vi proponiamo il corso SMERD (Social Media Expert Research & Development) che vi darà gli strumenti per diventare aspiranti-vice-aiuto-assistente-stagista Social Media Manager. I docenti del master sono tutti affermati professionisti e riconosciuti Media Guru Influencer.
Obiettivo del corso
Il corso si rivolge a chiunque voglia raggiungere obiettivi misurabili di engagement su piattaforme social attraverso l’implementazione di strategie di digital marketing che prevedano attività sia organiche che a pagamento in un contesto di Integrated Social Media Activities finalizzate al Brand Reputation Management.
Programma
- Come fare screenshot degli Insights di Facebook
- Quante foto di gattini è possibile pubblicare in un mese
- “Perchè” vs “perché”: qual è il modo giusto di scriverlo
Iscrizione e costo
Con la formula “J.a.m.m. B.e.l.l.” (Joomla Activation Media Manager Brand Email Lead Learning) se ti iscrivi entro 10 minuti dalla lettura di questo post avrai il corso al prezzo scontatissimo di 200€ (2.200€ per tutti gli altri). I prezzi sono da intendersi esclusi di iva, pasti, penna Bic e fogli A4, più una colletta con offerta a piacere per coprire i costi della connessione a internet.
I nostri docenti
Rosalia Caccavale

Mimmofranco Cicolone

Sigismonda Sprezzan de Lollis

Franchino Purciarotti

Cosa aspetti a iscriverti a SMERD? Attenzione però: i posti sono limitati! Lascia un commento qui sotto per proporre la tua candidatura. Ti ricontatteremo al più presto. Forse.
Sgominata la banda del “piuttosto che”
Acciuffata nel milanese la famigerata banda del “piuttosto che”. Il gruppo criminale, specializzato nella contraffazione della locuzione avversativa e comparativa, aveva negli anni allargato lo smercio dei “piuttosto che” contraffatti: copie in tutto e per tutto identiche all’originale, ma usate per scopi impropri come ad esempio in funzione disgiuntiva al posto di “oppure”.
La banda, con ramificazioni in tutto il Nord Italia, aveva appena iniziato l’assalto all’intero territorio nazionale spingendosi fin nelle più remote province del napoletano e della Locride.
I “piuttosto che” taroccati hanno rapidamente preso piede in territori fino a pochi anni fa ritenuti immuni da questa vera e propria piaga. Tanto che oggigiorno non è insolito ascoltare comitive di giovani sul lungomare di Mergellina lanciare proposte per la serata “Ué Gennarì, stasera ci vediamo a piazza Dante e ci facciamo una pizza piuttosto che uno spaghetto a vongole?”
Tra i componenti della banda, insospettabili esponenti dell’alta finanza, colletti bianchi e dirigenti d’azienda, avvocati e pubblicitari, ma anche presentatori televisivi, commercianti, tabaccai e parrucchiere, oltre a numerose professoresse di italiano.
La centrale della contraffazione è stata alla fine neutralizzata grazie alle unità cinofile dei Carabinieri che hanno sguinzagliato i fidi Treccani: “Finalmente stiamo estirpati questa maladucazzione e io spero che non lo fanno più” afferma l’appuntato Gargiulo subito dopo la retata che ha portato al sequestro del più ingente quantitativo di “piuttosto che” di cui si abbia memoria.

Per approfondire potete leggere cosa ne dice la Treccani, o cosa ne pensa l’Accademia della Crusca. Se invece volete dare un contributo attivo alla lotta contro l’uso improprio del “piuttosto che”, potete aderire a uno dei tanti gruppi sparsi in giro sui social, come questo per esempio.
La banalità della pubblicità
Opel lancia la nuova Astra con il claim “Spudoratamente di lusso”, e lo fa con una campagna televisiva memorabile per aver creato il bambino più antipatico nella storia della pubblicità. Girano già diverse parodie su YouTube.
Glissiamo sul fatto di aver rappresentato il non-possessore di Opel come un bruttino stagionato mentre il possessore della Opel è un fotomodello vichingo e anche po’ #hipsterdelcazzo: qui siamo all’ABC della pubblicità. Vorrei invece spendere due parole sul rovesciamento dei significati, un’operazione retorica degna dei peggiori bari di Forcella.
Il proprietario della Opel Astra, una macchina da 17mila euro e oltre, è raffigurato come un giovane di circa 25 anni che ha già un figlio di 10 anni a carico. Sicuramente ci sono in giro giovani che possono permettersi una macchina del genere a 25 anni, ma nella realtà che conosco quasi tutti i 25enni o sono disoccupati o stanno lavorando con un contratto in scadenza nei prossimi 2-3 mesi.
Il capolavoro arriva però pochi secondi dopo, quando per promuovere il servizio OnStar di soccorso satellitare automatico viene raffigurata una giovane operatrice di call center che risponde alla chiamata del dispositivo installato sulla macchina: una giovane super pettinata, truccata alla perfezione e con un elegantissimo tailleur che, più che una lavoratrice su turni di una centrale operativa, sembra la nipote rampante di Letizia Moratti.
E allora benvenuti nel favoloso mondo della pubblicità, dove nulla è ciò che sembra. Dove il target (anche se 50enne, calvo e panzone) è rappresentato come un giovane irresistibile Adone, mentre chi lavora in un call center (che anche per comprarsi una Fiat Duna deve sobbarcarsi un mutuo) assomiglia a un vincentissimo membro dei giovani di Confindustria.
#nofuture